Agata aveva sempre saputo che l’antico bucato era un impegno…(della Prof.ssa Maria Antonietta Mea)
Agata aveva sempre saputo che l’antico bucato era un impegno lungo e faticoso, ma il rievocarlo nella sua interezza, sia pure in una semplice sequenza di operazioni, l’aveva addirittura impressionata.
Quelle fatiche, che costituivano solo una parte di quelle che le donne dovevano sopportare nella maternità, nella cura dei figli e del marito e della casa, la portarono a chiedersi ancora una volta:
– Davvero fino ad appena mezzo secolo fa il “sesso debole” riusciva a fare tutto questo?
Pur essendo stata testimone di quei sacrifici, Agata lo trovava stupefacente, soprattutto se si considerava che alcune donne quel bucato dovevano farlo dopo aver lavorato nei campi e aver appena partorito un figlio, e aver cucinato e aver tirato su l’acqua dalla cisterna o dalla fontana e aver fatto e fatto e fatto …
Altro che sesso debole! Erano un sesso forte le donne, troppo, e gli uomini, che possedevano la forza bruta ma non la loro resistenza, lo avevano capito o forse solo inconsciamente percepito, e le temevano. Per questa ragione, secondo Agata, la storia degli ultimi millenni li aveva visti sempre in posizione di aggressiva supremazia.
Il problema della violenza sulla donna, non intesa come violenza fisica, o almeno non solo, ma soprattutto come politica di repressione generata dalla paura e portata avanti in una sorta di delirio di onnipotenza per secoli, per millenni, era sempre stato da lei molto sentito.
Era stato oggetto di discussioni sia pacate che furibonde, di garbate ma decise puntualizzazioni, sia nell’ambiente di lavoro che al di fuori di esso. Era stato un impegno sociale in prima persona, con le donne che a vario titolo erano entrate in contatto con lei.
Soprattutto, e questo la rendeva molto soddisfatta, aveva indottrinato centinaia di ragazze, le sue studentesse, le aveva spinte alla “disobbedienza civile” nei confronti dei loro genitori, se questi avessero tenuto atteggiamenti discriminanti tra figlie femmine e figli maschi.
Dava spesso un suggerimento: rifiutate di svolgere le faccende domestiche se ciò non viene richiesto anche ai vostri fratelli e, se i vostri genitori dovessero adirarsi, dite loro di venire a parlarne con me. Nessun genitore era mai andato da lei a lamentarsi.
Circa trent’anni prima aveva anche scritto una poesia sul tema. Le tornarono in mente alcuni versi. Il titolo era “Buona fortuna, donna”.
VI
Agata era nel suo studio, seduta al computer.
Non riusciva a trovare il file nel quale aveva registrato le sue poesie di tanti anni prima. Rintracciò le più recenti, ma non quelle.
Decise che doveva insistere nella ricerca. Sentiva molto quella sulla donna che le era appena tornata alla mente e spesso si era ripromessa di scrivere qualcosa sull’argomento, partendo proprio dall’analisi di quei versi.
Il femminismo come era stato vissuto nel sessantotto non la interessava molto. In
quell’anno era giusto nel mezzo dei suoi studi universitari, e aveva preso parte alla contestazione generale solo marginalmente, almeno per due ragioni.
Una riguardava la sua facoltà, dal taglio scientifico e quindi non politicamente sensibilizzata, l’altra era personale. Per formazione mentale e per educazione Agata era infatti più incline ai cambiamenti lenti e ben assimilati che a quelli rivoluzionari che, nella maggioranza dei casi e dopo spargimenti più o meno metaforici di sangue, in molti casi riportavano tutto al punto di partenza.
Non le piacevano le contestazioni strillate, il sesso libero, e tutto ciò che era esagerato, inoltre non le sarebbe mai passato per la mente non solo di togliersi il reggiseno per bruciarlo, come simbolicamente si faceva durante alcune manifestazioni di protesta, ma persino di nominarlo.
Alcune sue coetanee avevano vissuto con passione quei momenti, e avrebbero in futuro tenuto fede a quell’impegno sociale con coerenza. Ma vi erano anche molte sessantottine che avevano alzato il pugno chiuso nei cortei indossando abiti e accessori firmati. E dei foulard, allora tanto di moda, che Agata ancora ricordava, uno solo dei quali le sarebbe bastato per pagare un mese di pigione.
Era certa già allora che le avrebbe ritrovate in qualche salotto esclusivo, più ben vestite e ingioiellate che mai, senza un solo pensiero per le donne per le quali lottavano e che, passati i fervori del femminismo in piazza, avrebbero continuato a vivere il loro profondo disagio. E in molti casi non si era sbagliata nella previsione.
Agata considerava il problema della violenza sulle donne da un punto di vista più pragmatico, pensava a quelle che vivevano negli ambienti culturalmente più arretrati, alle donne che aveva conosciuto direttamente. Pensava alle loro lacrime, ai loro lividi e, peggio di tutto, alla loro rassegnazione.
Mentre le scorrevano nella mente i volti di Maria, di Pina, di Pissa, di Rosetta, di Giovanna, di Viola, continuava a cercare il file e infine lo trovò. La poesia era più lunga di come la ricordasse. Iniziava con l’augurio “Buona fortuna, donna”, e via via diveniva un’esortazione, a tratti una sferzata.
Conteneva un grido di rabbia contro “la violenza del maschio complessato che non perdona il privilegio di partorire”, esortava la donna a non scendere “a patti col nemico, padre amante marito fratello” ma al tempo stesso le attribuiva la responsabilità di essere stata in molti modi debole, interessata, masochista, ambiziosa. Una responsabilità attenuata dalla sua solitudine, dall’ignoranza, dal fatto di vivere in una società che sin da bambina le aveva raccontato il suo destino “mettendole in mano una bambola”.
Era stata scritta nel 1977. Pensò che trent’anni forse erano troppo pochi perché le cose fossero completamente cambiate, ma erano anche troppi se si considerava che non erano migliorate poi tanto.
La circostanza che la questione femminile fosse stata in passato sollevata e combattuta soprattutto da donne ricche e acculturate, spiegava in parte come non fosse stata adeguatamente risolta, forse proprio perché non le riguardava personalmente in maniera importante. Nella maggior parte dei casi, infatti, nelle loro relazioni private esse possedevano gli strumenti economici e dialettici per difendersi dalla prepotenza del maschio.
Mentre si soffermava su questo pensiero, Agata risentiva però il “…grido lacerante” della Banti, moglie di uno dei più grandi critici d’arte del Novecento. Considerò come Anna, donna di grande finezza culturale, avesse emesso quel grido nella consapevolezza di aver sacrificato dolorosamente la sua realizzazione personale sull’altare di quella del marito, pur tanto amato.
Questo esempio rimetteva un po’ in discussione le sue convinzioni, e ampliava il concetto di violenza anche alle auto castrazioni che, mascherate da sentimento a livello conscio, avevano di fatto generato in molte donne la profonda convinzione di una ragion di stato che dovesse fare emergere nella professione o nell’impegno sociale la componente maschile del rapporto.
Tuttavia, ragionando in termini di grandi numeri, Agata tornò alla considerazione secondo la quale il problema riguardava soprattutto le donne povere, che non avevano alcun bene di proprietà, che non lavoravano e quindi non percepivano una retribuzione, spesso per mancanza di un titolo di studio, e qui si ricadeva nel problema di essere nate in un ambiente che non aveva assegnato importanza all’istruzione delle donne. “Tantu nu fessa ca la mantene lu troa sempre”, era il leit motiv con il quale i genitori si assolvevano.
Forse più che di prepotenza del maschio sulla femmina, in questi casi sarebbe stato più corretto inquadrare la questione nell’ambito della prepotenza del forte sul debole, del ricco sul povero.
Una delle ragioni più ricorrenti per le quali molte donne accettavano la violenza in silenzio, oltre alla dipendenza economica, era la loro convinzione di fondo di essere amate dai loro uomini, fossero essi padri o mariti, o fratelli, il che le portava a giustificarli, per una sorta di sindrome di Stoccolma di tipo familiare.
Ciò che più angustiava e irritava Agata era il fatto che l’atteggiamento generalmente remissivo delle vittime contribuisse da una parte a sottovalutare la gravità sociale del fenomeno e dall’altra, riguardo alla mentalità maschile, a perpetuare la convinzione persino di buona fede di essere dei buoni mariti, dei buoni padri, dei buoni compagni.
Si rendeva conto che, a seguito delle lotte sociali combattute in maniera più o meno strumentale ma sempre determinante, molte disuguaglianze erano state cancellate, ma non quella di base tra uomo e donna, con l’aggravante che, mentre in passato erano state solo le donne appartenenti alle classi più povere e incolte ad essere umiliate, negli ultimi tempi quel tipo di violenza era presente in uguale misura e in preoccupante aumento in tutti gli strati sociali.
Voleva sperare che fosse solo la grancassa mediatica a far sembrare in crescita un fenomeno che nel passato era stato più ampio e solo più taciuto.
“Buona fortuna, donna!” era stata scritta d’impulso e non derivava da una delusione personale o da un vissuto che l’avesse vista violentata in quanto donna, perché almeno questo le era stato risparmiato.
Agata aveva sofferto sempre e soltanto per amore, per l’amore perduto di un uomo, per l’amore perduto di un’amica, per l’amore non trovato dove avrebbe voluto che ci fosse, per l’amore tradito da tanti tra coloro nei quali aveva creduto.
La circostanza di non essere personalmente toccata dal problema della violenza sulle donne non le aveva però impedito di sentirsi in dovere di lottare, anche se non sempre con il dovuto impegno, per tutte le altre che non avevano avuto, come lei, la fortuna di essere stata rispettata sin dalla nascita, in famiglia e fuori dalla famiglia, di avere ricevuto dai genitori e dai nonni tutti gli stimoli che potessero portarla a sentirsi forte e per niente inferiore ad un uomo, di aver avuto la possibilità di studiare e quindi di essere economicamente indipendente sin da giovanissima.
– Caro papà, cara mamma – si commosse Agata – quanto vi devo!
Aveva sempre nella mente le parole di suo padre quando diceva a lei e a Lucia:
– Prima dovete conseguire l’indipendenza economica e poi potrete sposare chi volete. Perché i mariti possono morire.
Una fitta alla schiena la spinse a cambiare posizione e poi ad alzarsi. Si ritrovò in preda a un malessere che non riusciva a spiegarsi. Non potevano essere stati i problemi appena considerati a crearle la sensazione di disagio che le chiudeva la bocca dello stomaco. Mosse alcuni passi nella stanza e capì che non di turbamento si trattava, ma di languore: non aveva cenato.