La malizia dell’attentato alla vita (di Salvatore Cipressa)
Il termine omicidio (dal lat. homicidium, comp. di homo «uomo» e –cidium «-cidio») significa uccisione deliberata di un uomo e può accadere all’interno delle relazioni interpersonali, segnate da forte conflittualità.
Simbolo ed espressione di una cultura anti-solidaristica e di morte, l’omicidio si presenta, nelle sue molteplici forme, come la risultante di ogni possibile aggressione e violenza. La malvagità di tale atto è talmente evidente che è quasi superfluo cercare di dimostrarla. È inutile addurre argomentazioni per rilevarne la gravità morale e la forza distruttiva in ordine a una solidale e pacifica convivenza umana. Nell’omicidio si condensa e si manifesta tutta la malvagità che il cuore umano nasconde dentro di sé. Gesù afferma: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo» (Mc 7,21-23). L’atto omicida presuppone in chi uccide un animo dominato dall’odio che vuole distruggere l’immagine di Dio che ogni uomo si porta dentro.
Non è l’odio, ma l’amore l’identità dell’uomo e il senso della sua vita. Chi uccide nega il valore della persona che ha di fronte, rifiuta di guardarla nel volto e opera in maniera violenta affinché venga annichilita, annientata nel suo valore ontologico e assiologico. San Tommaso d’Aquino afferma: «homicidium secundum se non est concupiscibile, sed magis horribile: quia non habet de se rationem alicuius boni» (Di per sé l’omicidio, non è desiderabile, ma è piuttosto ributtante: poiché non ha in se stesso alcun aspetto di bontà) [Summa Theologiae, II-II, q. 122, a.6, ad 4]. Chi uccide nega il valore e l’inviolabilità della vita umana che è uno splendido dono di Dio che permette di realizzare tutti gli altri valori della persona.
La malizia dell’attentato alla vita, non va ricercata nella quantità o qualità del male arrecato, ma nell’intensità dello spirito di dominio che vuole la sopraffazione dell’altro e il suo annientamento. Tale sopraffazione è riconducibile all’affermazione di sé stessi ai danni dell’altro che viene percepito come rivale.
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, approvata e proclamata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, all’articolo 3 afferma: «Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della sua persona». E Giovanni Paolo II aggiunge: «Nel diritto alla vita, ogni essere umano innocente è assolutamente uguale a tutti gli altri. Tale uguaglianza è la base di ogni autentico rapporto sociale che, per essere veramente tale, non può non fondarsi sulla verità e sulla giustizia, riconoscendo e tutelando ogni uomo e ogni donna come persona e non come una cosa di cui si possa disporre. Di fronte alla norma morale che proibisce la soppressione diretta di un essere umano innocente non ci sono privilegi né eccezioni per nessuno. Essere il padrone del mondo o l’ultimo miserabile sulla faccia della terra non fa alcuna differenza: davanti alle esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali» (Evangelium vitae, n. 57).
Il rispetto della vita, così come la sua difesa e la sua promozione, rappresentano quindi il primo imperativo etico e tutti coloro che fanno uso di ragione hanno l’obbligo di rispettare e amare ogni persona sul cui volto risplende la gloria di Dio.